Il fallafel nella Ville Lumiére
Se sei vegetariano: sarà un bagno di piacere. Se non lo sei rischi di diventarlo. Mal che vada realizzerai che anche la cucina vegetariana ha un suo carattere. Denso di profumi e ricco di sapori, che vanno ben oltre l’insalata e la linea. Con una storia tutta sua. Al diavolo i cliché.
Il fallafel, versione yiddish della polpetta tanto diffusa in medio oriente, ha raggiunto Parigi al seguito degli ebrei ashkenazi. E qui il rito si perpetua, con gran soddisfazione di turisti e francesi che all’ora del pranzo si assiepano ordinati di fronte alla porta del locale più vivace del Marais
Libano, Israele, Egitto sono i paesi che ne vantano una profonda cultura, ma se ne volete gustare il sapore in Europa, beh, la scelta è unica. Parigi, rue de Rosiers, nel cuore del vecchio ghetto ebraico, a “L’As du Fallafel”, maison fondata nel 1979. Qui si vantano di realizzare il miglior fallafel del mondo. E beh…
Le polpettine fritte, fatte di fave tritate, cipolla, aglio e coriandolo farciscono abbondantemente una pita , sgomitando accanto a cavolo rosso, cavolo bianco, cetriolo, melanzane anch’esse fritte, pomodoro fresco, salsa hummus .
Vi riempiono la focaccetta aperta a tasca alla velocità della luce, spizzicando con la destrezza di un funambolo da contenitori esondanti verdure appena tagliuzzate.
La porgono dalla vetrina, grondante salsa, a chi desidera gustarla passeggiando nel più intimo quartiere della Ville Lumiere. Dove la storia si tocca ancora con mano e i gruppetti di ragazzi agli angoli delle strade fanno capire che lì, la lotta dell’uomo contro l’uomo, non si è ancora chetata. La sinagoga, sì, è presidiata da poliziotti in divisa. Il ghetto no. Ma se osservate con attenzione, vi rendete conto che niente passa inosservato. Che niente è fuori posto, che la quiete sta al soldo del passaparola fatto di gestualità e sguardi vigili.
Sbocconcellare sul selciato il sandwich importato dall’Oriente può apparire caratteristico, ma poco funzionale. Il vulcano di verdure e salsa che stringete in mano si lascia domare con difficoltà, meglio gustarlo seduti: sul gradino del marciapiede o nell’incavo di una vetrina a mo’ di panchina, accettando l’aiuto della forchetta in dotazione.
Meglio ancora al caldo del civico 32, dopo aver fatto la vostra bella fila di fronte all’ingresso, con in mano il numero scarabocchiato su un foglietto da uno dei ragazzi che fungono da “butta dentro”. E già che ci siete ordinate una birra, la Maccabee, una lager israeliana che raggiunge a malapena i 5 gradi.
Lo “Special” (la versione vegetariana) batte tutti i panini, ma se proprio non riuscite a rinunciare alla carne, il menù propone pita “Merguez” (manzo speziato) e “Schawarma” (tacchino e agnello). In inverno servono zuppa calda di legumi profumata di spezie, portata in tavola in una colorata scodella di ceramica, smaltata di verde, giallo, nero e rosso. Mentre tutto attorno voci e movimento cicalecciano la quotidianità, in un via vai continuo. Soprattutto di giovani con la kippah , studenti ed impiegati che alla fine – perché tutto il mondo è paese – pagano lasciando il buono pasto aziendale a corredo del conto.
A servire dinamici ragazzi e ragazze che non superano i trenta. Vi portano quell’esuberante cuscino colmo di farcitura da trattare con cautela. Per cui è bene avviare la conoscenza dapprima con la forchetta.
Poi, tracciata la via, serrando nella pita tutti quei profumi, come fosse un portafogli e… chi s’è visto, s’è visto! La via verso l’esterno si guadagna addentando senza scampo, recuperando quel po’ di salsa che sporge all’angolo delle labbra. Con un lieve cenno del dito, se preferite, per riportare nei ranghi l’hummus ribelle. E reimmergervi di slancio nella Ville Lumiere. Sabato escluso, in rispetto del giorno di riposo di nostro Signore quando, come il resto degli esercizi commerciali nel ghetto, anche L’As du Fallafel chiude i battenti.