Una tavola sempre meno Made in Italy
Il più copiato e il più ambito. Il made in Italy fa gola, anche a tavola. Ci ritroveremo in mano con un pugno di mosche? Non bastavano i pomodori San Marzano coltivati in Usa o in Cina, il “Parma salami” del Messico e il prosciutto dell’Est Europa, il Parmesao del Brasile, il Pesto statunitense, l’olio Romulo con tanto di lupa venduto in Spagna, il Chianti della California, una curiosa “mortadela” siciliana dal Brasile, un “salami calabrese” prodotto in Canada, il barbera bianco rumeno, il provolone del Wisconsin….
Anche l’autentico made in Italy, ossia no italian sounding (come viene definito ciò che “suona” al modo italiano) né contraffatto, sta diventando sempre meno nostro, e sempre più straniero. Perché i gioielli alimentari tricolore piacciono a Russi, Francesi, Giapponesi… che nella logica del mercato (voglio dunque compro) aprono il portafogli e si portano a casa pezzi d’identità nazionale. “Dopo la cessione del prestigioso marchio Gancia ad un oligarca russo e della Parmalat ai francesi della Lactalis, la cessione del 51% della Ar Alimentari spa, il primo produttore italiano di pomodori pelati, alla società anglo-nipponica Princes controllata dal gigante Mitsubishi – ha commentato il presidente della Coldiretti Sergio Marini – conferma la grande appetibilità del Made in Italy alimentare”.
Quindi speranze puntate verso la filiera possibilmente corta, àncora di salvezza per l’agroalimentare italiano. “È necessario accelerare il progetto di filiera agricola italiana – ha proposto Marini come strada possibile – che veda direttamente protagonisti gli agricoltori per garantire quel legame con il territorio che ha consentito ai grandi marchi di raggiungere traguardi prestigiosi, candidandosi così ad essere i nuovi protagonisti della trasformazione agroalimentare nazionale”.
Ma guarda un po’… l’industria alimentare italiana è molto buona per i fini appetiti altrui. Che lentamente, ma neppure troppo, e inesorabilmente ci troveremo spogliati delle nostre certezze? La firma piemontese degli spumanti Gancia è ormai nelle salde mani di Roustam Tariko (oligarca russo della vodka) che ne ha rilevato il 70%, Buitoni dal 1988 appartiene all’elvetica Nestlé, proprietaria anche di Antica Gelateria del Corso, Perugina e altri marchi ex-italiani. Agli spagnoli Deoleo sono passate aziende storiche del settore dell’olivicoltura come Bertolli, Carapelli, Sasso. Unilever, colosso anglo-olandese, si è portato a casa i gelati Algida e la bolognese Santa Rosa, brand molto noto nel mercato delle confetture italiane.
L’ultima in ordine di tempo è un’azienda di rilievo del settore dei pelati, simbolo di un modo di essere “pizza e mandolino”, che passa nella sostanza ai Giapponesi. “La Ar è attiva nella produzione di conserve ed ha un fatturato di circa 300 milioni di euro con stabilimenti in Campania e in Puglia a Borgo Incoronata, a due passi da Foggia. Solo il 20% delle vendite del gruppo hanno l’Italia come meta finale, mentre il giro d’affari all’estero spazia fra il 30% per l’Inghilterra, il 20 per la Germania, il 10 per l’Africa, l’8 per la Francia, con una percentuale minore per Grecia, Stati Uniti, Canada, Giappone, Austria e Sud America. L’inglese Princes – conclude la Coldiretti – è controllata dalla Mitsubishi Corporation dal 1989 ed ha realizzato da allora ben 22 acquisizioni e fusioni classificandosi tra le società europee con maggiore rapidità di crescita”.
Ma sì: diventeremo tutti cittadini del mondo… o sarà il mondo ad espropriarci della nostra identità?