Un panino al fresco
Nessuna porta si apre, se prima non ti sei chiuso alle spalle l’ultima che ti ha fatto passare. Parrebbe quasi un insegnamento per una buona condotta di vita. E una volta dentro, se non fosse per quei muri e cancelli che lo sguardo non può oltrepassare, non è spazio vuoto bensì pieno. Di vita, di energia, di progetti, di desideri, di corse affannate in fuga dall’oblio.
Così se non reciti sei in sartoria, e se non tagli per ricucire radi l’erba attorno al Maschio , impari l’arte e la metti da parte in un diploma da geometra, vesti lo sparato e presti servizio in cucina.
Il carcere d’alta sicurezza nel cuore toscano di Volterra , splendida cittadina etrusca, è una piccola isola felice che colma di impegni le giornate successive agli errori.
Tra le varie attività dal 2006 organizza “Cene Galeotte”: otto serate a cadenza mensile aperte all’esterno (35 euro il costo a persona) in cui i detenuti cucinano guidati da noti chef (Massimo Bottura, numero quattro al mondo per la S. Pellegrino World’s 50 Best Restaurant; Enoteca Pinchiorri di Firenze; Luciano Zazzeri de “La Pineta” di Marina di Bibbona; Vito Mollica del “Palagio” del fiorentino Hotel Four Seasons; Marco Stabile di “Ora d’aria”… solo per citarne alcuni tra coloro che si sono avvicendati in cinque anni) e Unicoop Firenze fa da sponsor e da cassa di risonanza (le prenotazioni e il programma passano attraverso loro).
La cittadina dove Visconti ha ambientato “Vaghe stelle dell’Orsa” e più recentemente Chris Weitz ha cercato pace per i vampiri di “New Moon”, ospita una casa di reclusione modello, dove si arriva per merito e se ne esce (quando possibile) con un mestiere in mano.
“Otto serate perché otto sono i Paesi inseriti nella campagna di solidarietà sociale “Il cuore si scioglie” cui destiniamo interamente il ricavato – spiega Maria Grazia Giampiccolo, direttrice della casa di reclusione dal 2003 – in genere si tratta di adozioni a distanza.
Anche se l’obiettivo è fornire ai detenuti strumenti che mettano loro in condizione di ricrearsi un ruolo nella società”. Imparare a cucinare o servire in sala è uno di questi, non a caso dal 2006 già 12 di loro sono stati assunti in ristoranti.
Dato il parterre di chef al comando della brigata, i menù sono tutti ad alto gradimento. E diciamo noi: poteva mancare il panino? La serata conclusiva del calendario di quest’anno (ma in realtà dato il successo di pubblico, perché l’accesso è aperto a chiunque, ne verrà organizzata una extra nell’isola di Gorgona per la notte di San Lorenzo) ha chiamato a dirigere i fuochi Cristiano Tomei, lo chef giullare della Viareggio verace nonché patron de “L’Imbuto”.
Cristiano ha introdotto il menù partendo da un panino che solitamente serve in una scatolina da fast-food, con dentro tutta la saggezza e il gusto dei pescatori schietti.
“La ricetta originale di questa ciabattina monoporzione è di mia nonna Onorina, era lei che custodiva il levame (lievito madre, ndr) nella madia – racconta Cristiano, con bandana a fermare i capelli corvini – Sono un giocherellone e questo sandwich sintetizza tutto il mio mondo e la mia voglia di mettere a tavola facendo divertire”.
Niente posate, il “Cris fish burger” si mangia con le mani, afferrando con l’indice la zuppetta (così i pescatori del molo di Viareggio chiamano la cassetta venduta a forfait) che tende a fuggire il morso.
“Si tratta di un crudo fuori dagli schemi. Basta tartare servite come regine, dobbiamo sdrammatizzare e iniziare a prenderci un po’ meno sul serio. Perché la tavola è un momento di svago”.
Ogni giorno, dunque, una farcitura differente, fatta di polpa mista e variabile nella composizione: gallinella, pesce prete, triglia, mustella, ricciola, nasello…. Diliscati e battuti al coltello, conditi con qualche scorzetta di limone, pepe e sale. Quindi un pezzettino di sfoglia di passata di pomodoro essiccata in forno a dare acidità (il ricordo della conserva di nonno Elio), maionese, una fetta di pomodoro verde fritto. Et voilà, mare ed orto vanno a braccetto!
Piatto riuscito, costruito dalle basi dai ragazzi ospiti del penitenziario che ogni mattina scendono in cucina per preparare i pasti ai compagni detenuti. Alban, Vito, Franco, Leonardo, Emilio, Martino, Francesco.
Tra i quali tre ergastolani, con sentenze definitive per omicidio, ma con la voglia di non fermare la mente e di sperare in qualcosa di migliore. Partendo da una cucina, perché no!
Giacca bianca delle occasioni importanti, i sette detenuti venerdì scorso hanno ancora una volta guardato oltre le sbarre pulendo, sbucciando, affettando, cuocendo, mixando, colando… Per dare vita a al fish burger, alla bavarese di seppie, ai gamberi nell’orto, al pescato con chantilly di mozzarella, alle cozze ripiene di coniglio, agli gnocchi con le ostriche, alla crema catalana al tabacco, alla chantilly allo stracchino con meringa al caffè. Pretesti. Scuse.
Opzioni per guardare oltre gli errori di un passato spesso lontano ma che non ha tolto loro la voglia di vivere.
Certo: in una struttura dove “cella singola è mezza pena”, dove il carcere è qualcosa che ti fa dire: “sì, quando un domani uscirò dopo aver giustamente pagato perché all’epoca avevo la possibilità di scegliere una via alternativa ma non l’ho fatto, vorrei mettere a frutto quello che sto imparando in questa cucina”.