Le ricette di cucina nel 1891. Un altro mondo, grazie a Pellegrino Artusi
“La cucina è una bricconcella; spesso e volentieri fa disperare, ma dà anche piacere, perché quelle volte che riuscite o che avete superata una difficoltà, provate compiacimento e cantate vittoria”. E ancora. “Diffidate dei libri che trattano di quest’arte: sono la maggior parte fallaci e incomprensibili, specialmente quelli italiani; meno peggio i francesi: al più al più, tanto dagli uni che dagli altri, potete attingere qualche nozione utile quando l’arte la conoscete”.
Leggo e sorrido; e mi dico che nelle librerie di genitori e nonni non si fatica a trovare spesso libri ad oggi considerati antichi e superati. Se ci pensiamo bene, superati per chi? Per cosa? In fin dei conti, sono solo lo specchio dei tempi, un buon modo per ricordare (per alcuni, più in là con l’età) e di conoscere (per altri, un po’ più giovani). A tal proposito, scoprire di avere a disposizione l’edizione del 1963 dell’opera (sì, l’opera) “La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi, patrocinata dall’Accademia Italiana della Cucina, non ha prezzo (come dice un famoso spot commerciale). E’ il modo migliore per capire che il cibo è sempre cibo, ma che il cucinare di 100 anni fa (e oltre) è ben altra cosa rispetto a quello che vediamo oggi. Oggi il food non solo si gusta; di cibo si parla e si discute come mai prima (trasmissioni tv, libri a tema, riviste, web, blog, ecc.). E lo si fa in modo (logicamente) completamente diverso.
Prendiamo qualche ricetta a caso dal libro dell’Artusi. E ne capiremo di più. Andiamo a caso, senza un ordine preciso. Pescare nel mazzo è anche più interessante. Troviamo il cuscussù, definito in apertura “piatto di origine araba che i discendenti di Mosè e Giacobbe hanno, nelle loro peregrinazioni, portato in giro per il mondo, ma chi sa quante e quali modificazioni avrà subite dal tempo e dal lungo cammino percorso”, oppure il minestrone, il quale richiama alla memoria dell’Artusi “un anno di pubbliche angosce (nel libro troviamo scritto angoscie) e un caso mio personale” (un minestrone mangiato a Livorno in concomitanza con l’arrivo del colera nella città toscana). O ancora i maccheroni con le sarde alla siciliana, per cui “di questa minestra (minestra?) vo debitore a una vedova e spiritosa signora il cui marito, siciliano, si divertiva a manipolare alcuni piatti del suo paese, fra i quali il nasello alla palermitana e il pesce al taglio in umido”.
O infine il cacciucco, per cui l’Artusi propone due versioni – più o meno leggero e digeribile -, che “naturalmente, è un piatto in uso più che altrove nei porti di mare, ove il pesce si trova fresco e delle specie occorrenti al bisogno. Ogni pescivendolo è in grado di indicarvi la qualità che meglio si addicono ad un buon cacciucco; ma buono quanto si voglia, è sempre un cibo assai grave e bisogna guardarsi dal farne una scorpacciata”. Potremmo continuare con il “modesto e umile” polpettone o con il cibreo, “intingolo semplice, ma delicato e gentile, opportuno alle signore di stomaco svogliato e ai convalescenti”.
Il libro dell’Artusi, per essere precisi, non è un semplice libro di ricette (come tanti se ne trovano oggi). Nella prefazione dell’edizione in mio possesso (ripetiamo, 1963) leggo testualmente: la “Scienza in cucina” meritò l’onore di essere collocata nella storia della letteratura nazionale. Vi appartiene di diritto, tanto per la particolare e celebrata tradizione bibliografica cui si riallaccia e che continua, quanto per il suo significato storico, come, infine, per la prosa di volta in volta arguta e sorniona, maliziosa, sapida sempre, in cui si esprime, lardellata […] “di divagazioni piacevoli, di noti ziette scientifiche date senza parere, di citazioni ad hoc, di rapide dissertazioni letterarie, di puntarelle gallofobe, di spunti di etimologia, e chi più ne ha più ne metta”, il tutto presentato con un fare amichevolmente discorsivo e candido, una prosa fluente e limpida, da richiamare la gustosità del discorso conviviale.
Fare discorsivo e prosa fluente a richiamare la gustosità del discorso conviviale dunque. Una caratterizzazione che oggi, forse, manca nelle ricette che siamo abituati a consultare. Oggi è tutto più tecnico: lavate, pulite, mondate, e poi un pizzico di sale qui, olio evo quanto basta, fate cuocere per diversi minuti fino a che…, ecc. ecc. Se ne trovano tante, troppe, di tutti i tipi (mentre quelle dell’Artusi sono più “basic” e legate alla tradizione gastronomica italiana). Sono a disposizione 24/24 (in particolare in Rete), adatte a qualsiasi occasione e/o momento della giornata. Ne siamo “sommersi” – visto anche il successo del settore negli ultimi tempi – e non ne possiamo più fare a meno. Ma se si tornasse a raccontarle con un po’ di storia, di “anima”, non sarebbe meglio? Non avrebbero, ai vostri occhi (come ai miei) una marcia in più? Quel quid che le renderebbe uniche, e per questo ancora più stimolanti da provare e da … riprodurre?
Dice bene l’Artusi, a conferma che la cucina, e il cucinare, sono sinonimi di passione, prima (oltre) che di capacità: “il miglior maestro è la pratica sotto un esercente capace; ma anche senza di esso, con una scorta simile a questa mia, mettendovi con molto impegno al lavoro, potrete, io spero, annaspar qualche cosa. […] Amo il bello ed il buono ovunque si trovino e mi ripugna vedere straziata, come suol dirsi, la grazia di Dio” .